Introduzione - Introduzione

Nel 1953, la mia famiglia aveva finalmente concluso il suo peregrinare per mezzo mondo e cominciava, a Roma, un periodo di stabilità territoriale ed economica. Proprio in quella nuova condizione, ...

Nel 1953, la mia famiglia aveva finalmente concluso il suo peregrinare per mezzo mondo e cominciava, a Roma, un periodo di stabilità territoriale ed economica. Proprio in quella nuova condizione, dopo tre anni, mi sono trovato a nascere, terzogenito, da padre piemontese, Ugo Drago, nato ad Arborio, un piccolo paese famoso per il suo riso e da madre tedesca, Marianne Blumann, di Berlino, ma con ascendenze slave, in parte anche giudaiche.


 Mio padre, di origini contadine, era diventato aviatore civile, ma durante l’ultima guerra mondiale era stato pluridecorato e poi menzionato in diversi libri di aeronautica militare. Mia madre, invece, proveniva da una ricca famiglia (il padre, di origine rumena, era uno dei più noti chirurghi di Berlino), ma preferì lasciare la sua condizione agiata, a soli 17 anni, innamorata di mio padre, per trasferirsi ad Arborio a condividere la dura vita di paese durante i difficili anni della guerra. 


Il mio interesse per la musica si è sviluppato in famiglia perché i miei genitori, pur non essendo musicisti, avevano una particolare predilezione per quest’arte. Però, se ho potuto cominciare a suonare il pianoforte, lo devo a mia nonna materna, una ex allieva del grande pianista Edwin Fischer che, dopo aver messo alla prova gli altri suoi nipoti, prima di morire, si rese conto di poter lasciare in eredità il suo meraviglioso strumento proprio a me.


Era uno Steinway mezza coda, con un suono particolarmente dolce e una tastiera leggerissima, da poterla suonare quasi soffiandoci sopra.


Avevo sette anni quando arrivò in casa, subito mi innamorai di quello strumento e cominciai a suonarci tutte le melodie che attiravano la mia attenzione, affascinato dai suoi mezzi espressivi e dalla possibilità di immergermi in dimensioni dell’anima e dello spirito mai percepite fino allora.


Durante questi tentativi provai a imitare, da un disco in vinile, il primo movimento della Sonata di Beethoven op. 27 n. 2 (al Chiaro di Luna), suonato da un pianista che da allora divenne uno dei miei preferiti, almeno fino alla maggiore età, Walter Gieseking .


Le prime battute di introduzione erano facilmente imitabili, ma … l’apparizione della melodia era, per me, un mistero. Come faceva quel pianista a suonare ottave al basso terzine con la destra e, addirittura, ancora una melodia all’acuto. Pensavo avesse tre mani.


La soluzione di quell’enigma mi venne cominciando a prendere lezioni di pianoforte.Inizialmente la cosa mi spaventava, avevo timore di dover trasformare una stupenda, libera, intima esperienza personale, in un impegno formale, regolato da fattori esterni, da una volontà che non era la mia. Inoltre dovevo confrontarmi con la mia grande timidezza che spesso bloccava la mia apertura al mondo. Fu così una felice sorpresa quando entrai per la prima volta a casa della mia nuova insegnante. Tutti i miei timori svanirono nel nulla, vedendo una minuta “signorina” con i capelli bianchi aprirmi la porta, con un raggiante sorriso che splendeva sul suo volto.

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Lina Bartomeoli - Lina Bartomeoli

È stato un vero incontro di destino quello con Lina Bartomeoli, durato fino alla sua morte nel ’91.

Era stata una giovane promessa, allieva di Guido Agosti, che per motivi familiari ...

È stato un vero incontro di destino quello con Lina Bartomeoli, durato fino alla sua morte nel ’91.

Era stata una giovane promessa, allieva di Guido Agosti, che per motivi familiari dovette accantonare le speranze di carriera concertistica, per dedicarsi all’insegnamento.


Seppe, da subito, entrare in sintonia con le mie esigenze e riuscì, col suo grande amore, a farmi superare tutti i numerosi ostacoli che frapponevo alla disciplina musicale.Non ho mai considerato l’idea, durante il mio apprendistato, di studiare per diventare un professionista della musica. 


“Sentivo”, con grande forza, la musica, e questo mi bastava; mi sfidavo a suonare sempre meglio, cercando di imitare i modelli che, via via mi sceglievo, sui dischi o frequentando le sale da concerto, ma non sapevo cosa avrei fatto da grande.

L’ascolto della musica classica e quella per pianoforte in particolare, lasciava una fortissima impressione nel mio animo, come la sensazione di appartenere ad una élite aristocratica, che, sola, riconosceva valori di bellezza, verità, profondità, contenuti in quelle opere. 


Quanto questa sensazione abbia influito negativamente nel mio percorso di studio lo approfondirò in seguito.In ogni caso, per me, fare musica era spesso una sorta di gioco, una sfida con me stesso, per conoscermi e migliorarmi, non era quindi considerata come una attività per un avviamento professionale, e così era vissuta dai miei genitori che in questo mi hanno sempre favorito.


Avevo anche altri interessi, mi piaceva giocare a pallone, pescare, dipingere, e in seguito, dall’adolescenza, leggere, soprattutto ciò che riguardava l’oriente, o comunque l’esoterismo.

Infatti, gli anni della mia formazione sono stati caratterizzati da due forti influenze, tutte e due mediate da Lina Bartomeoli, da una parte la scuola pianistica di Guido Agosti, di cui era stata allieva, dall’altra la conoscenza del Dott. Marcello Carosi, medico omeopatico, che ha sostenuto il mio forte interesse per le filosofie orientali e per l’ Antroposofia di Rudolf Steiner


Il Dott. Carosi è stato a lungo un grande punto di riferimento per chiunque si avvicinasse alla medicina antroposofica, sia da paziente, che da aspirante medico. In particolare, per me, è stato colui che, in maniera totalmente gratuita, per anni, ha fatto da medico, mentore, confidente, modello e sostegno durante tutte le crisi di crescita.

È stato anche attraverso di lui, anche se indirettamente, che ho potuto conoscere quella che sarebbe diventata mia moglie.

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Guido Agosti - Guido Agosti

Tornando alla mia formazione musicale, questa ha subito una decisa svolta per l’incontro con Guido Agosti con cui ho studiato gli ultimi tre anni prima del diploma di pianoforte, quindi tra il ...

Tornando alla mia formazione musicale, questa ha subito una decisa svolta per l’incontro con Guido Agosti con cui ho studiato gli ultimi tre anni prima del diploma di pianoforte, quindi tra il 1975 e il ’78, e più due lunghi corsi estivi (allora i corsi duravano ben 5 settimane) presso l’Accademia Chigiana di Siena, nel 1978 e nel ‘79.


Agosti era una personalità di grande rilievo nel mondo accademico musicale ed è stato indubbiamente un grande didatta.

Quando morì, durante la cerimonia funebre, sua moglie, Lydia Stix, cantante lituana, ricordò le parole del maestro, che si considerava come una fonte a cui tutti avevano potuto abbeverarsi. Era vero, da una parte, ma questa affermazione mi faceva anche riflettere sul fatto che, per lui, non fosse necessario un rapporto di scambio con gli allievi; la “fonte” elargisce i suoi beni, senza interessarsi a chi si abbevera. Così gli allievi dovevano apprendere e imitare ciò che lui indicava e mostrava, come era la prassi anche per altre figure carismatiche di insegnanti di pianoforte. 


Da questo punto di vista ho imparato tantissimo da Agosti, l’attenzione ai diversi stili dei vari compositori, il gusto per il fraseggio nobile ed elegante, la raffinatezza del suono, l’attenzione alla struttura delle varie forme musicali. Importanti erano anche i suoi ricordi personali di Cortot e di Rubinstein. La forza della sua personalità risiedeva nella sua cultura superiore, anche se questa qualità poteva tradursi, per alcuni, in freddezza. L’allievo non aveva, con lui, molta autonomia, e, soprattutto, doveva essere già tecnicamente a posto, perché Agosti non aveva interesse ad insegnare la tecnica pianistica. 


In me, che invece sentivo di avere carenze tecniche, tutto ciò ha generato un forte conflitto. Da una parte ero molto affezionato ad Agosti, per la sua aristocraticità del pensiero (proprio ciò che mi esaltava da ragazzo), ma proprio per questo mi colpevolizzavo per tutto ciò che mi mancava, come se fosse un mio limite innato. Mi ci sono voluti molti anni, dopo che il rapporto si era già concluso, per capire che, in realtà, avevo bisogno di un altro tipo di rapporto tra maestro e allievo.


La sofferenza che mi ha provocato questa presa di coscienza, però, è alla base di tutte le mie scelte successive, sia dei maestri da seguire, che nell’individuazione di ciò che dovevo perseguire nella mia successiva attività di didatta. Guarda Guido Agosti su wikipedia...

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Nuovi orizzonti dell’insegnamento - Nuovi orizzonti dell’insegnamento

La riflessione nata intorno alle esperienze della mia adolescenza ha prodotto l’esigenza, quando ho cominciato io stesso ad insegnare, di porre l’allievo al centro della lezione, o meglio, il ...

La riflessione nata intorno alle esperienze della mia adolescenza ha prodotto l’esigenza, quando ho cominciato io stesso ad insegnare, di porre l’allievo al centro della lezione, o meglio, il valore, la qualità della relazione e della comunicazione tra maestro e allievo, dovevano essere al centro della mia attività di insegnante.


Ciò che mi interessava era la possibilità che l’allievo potesse aumentare la fiducia in sé stesso, aumentando la consapevolezza di sé e di ciò che faceva, in modo da sviluppare il coraggio nell’esecuzione.

Mi ha sempre interessato far emergere, nell’allievo, l’attenzione sul proprio, peculiare, “rapporto” con la tastiera, con i suoni, e con il proprio corpo, vero strumento musicale.


La lezione, per me, ha quindi rappresentato un luogo di scoperte eccezionali, un laboratorio privilegiato di esperimenti “scientifici”, dove verificare l’attendibilità di alcune ipotesi di lavoro, o semplicemente un luogo in cui, con stupore, sia io che l’allievo potevamo contemplare il miracolo di un evento artistico, la sua profondità, fino a dove l’umano e il divino si incontrano.


A questo sono giunto attraverso la ferma volontà di dare all’allievo ciò che mi era mancato nei precedenti anni di studio, ma, senza dubbio, mi sono potuto avvalere della esperienza acquisita con Fausto Zadra, prima e successivamente con Sergiu Celibidache. 


L’oggettività e la scientificità degli elementi riguardanti la tecnica pianistica, con Zadra, e dei criteri con cui Celibidache affrontava, fenomenologicamente, qualsiasi parametro musicale, erano la base concreta e solida su cui imbastire un attivo rapporto con l’allievo. 


Infatti, dopo il periodo di transizione (come preferisco definire i tre anni, 1978-81, trascorsi alla Musikhochschule di Essen, molto importante soprattutto sul piano della trasformazione della mia persona e della mia apertura al mondo), ecco dopo questo periodo, sul piano finalmente professionale, gli incontri decisivi sono stati quelli con quei due maestri, Zadra e Celibidache, anche se così diversi fra loro, direi opposti e complementari.

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Fausto Zadra - Fausto Zadra

Zadra, argentino di nascita, ma di origine italiana, è stato uno degli allievi più rappresentativi (insieme a Marta Argerich, Bruno Leonardo Gelber e Daniel Baremboim) di Vincenzo Scaramuzza, a ...

Zadra, argentino di nascita, ma di origine italiana, è stato uno degli allievi più rappresentativi (insieme a Marta Argerich, Bruno Leonardo Gelber e Daniel Baremboim) di Vincenzo Scaramuzza, a sua volta allievo di Florestano Rossomandi, esponente della scuola napoletana fondata da Beniamino Cesi.


Grande istrione, Zadra aveva una naturale vocazione per l’insegnamento e la comunicazione, ed era riuscito, con il suo carisma, e con l’aiuto di sua moglie, Maria Luisa Bastyns, altra valente pianista, a creare una scuola privata a Lausanne, che ha catalizzato centinaia di giovani pianisti, da tutto il mondo.


Ho avuto la fortuna di partecipare a questi corsi, di inserirmi nella feconda tradizione di una scuola pianistica di livello internazionale e di essere stato scelto come suo assistente, iniziando così a farmi conoscere anche come insegnante. Zadra ha sempre creduto nelle mie qualità artistiche, nonostante le mie incertezze, e devo a lui se ho potuto iniziare la carriera concertistica. 


Fui presente alla sua morte avvenuta, il 17 maggio 2001, al Teatro Ghione di Roma e ovviamente ne fui profondamente turbato. Stava suonando il Notturno in re b di Chopin, quando, verso la fine del brano, si accasciò sulla tastiera per non alzarsi più.L’anno successivo suonai anch’io in quel teatro e gli dedicai questo breve ricordo, che accompagnava il programma di sala:


Essere in ogni nota

era la frase che ho sentito ripetere spesso, da allievo ed assistente, durante i corsi di Fausto Zadra e che ancora mi accompagna, come un forte imperativo, durante lo studio giornaliero, e che mi aiuta a sentire la sua inconfondibile presenza, la sua voce, accanto a me.


Quella frase voleva e vuol dire: dare il giusto peso, colore e quindi significato ad ogni suono, ma non in un senso solo intellettuale, cosa che lui giustamente riteneva una limitazione. Per Zadra voleva dire una presenza, un coinvolgimento totale dell'essere nel suono, a partire dal corpo, implicando con forza il sentimento e la mente.


Il suo suono acquistava così una rara capacità di seduzione, di sensualità, oltre che di ricchezza e bellezza estetica. Voleva catturare l'ascoltatore con la forza del suo impegno, con l'amore verso il mistero della musica, pur essendo consapevole della limitatezza delle nostre forze nel tentativo di tendere alla perfezione dell'arte.


E proprio per ridurre l'eccessiva tensione che la ricerca di perfezione, a volte nevrotica, produce nell'artista, Zadra amava giocare, scherzare, spiazzare.


Così giocava con tutti coloro che prendevano le cose in maniera esageratamente seria, allievi troppo esigenti con sé stessi, ammiratori acritici, ed in questo era forse molto vicino al mistero della vita, che ci obbliga quotidianamente ad uno scarto mentale.


Dobbiamo molto, allievi e non, a quest'uomo ricco di fantasia e di talento, messi al servizio della realizzazione di scuole di perfezionamento e di festival, per la cultura e per la formazione di centinaia di allievi di tutto il mondo.


Io personalmente devo molto ad un maestro unico nel suo genere, per quello che ho appreso, che ha contribuito a formare la mia persona, e per il sostegno e l'incoraggiamento ricevuto nei momenti più difficili.Un anno fa Fausto Zadra ci ha lasciato, proprio in questo teatro, suonando un Notturno di Chopin, una volta di più suggellando la sua dedizione alla musica: un evento denso di significato, di un artista e uomo indimenticabile.

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Sergiu Celibidache - Sergiu Celibidache

L’altra figura di riferimento nella mia formazione, anche se agli antipodi rispetto a Zadra, è stato sicuramente Celibidache, un direttore d’orchestra unico, di cui ricordo le esecuzioni, che ...

L’altra figura di riferimento nella mia formazione, anche se agli antipodi rispetto a Zadra, è stato sicuramente Celibidache, un direttore d’orchestra unico, di cui ricordo le esecuzioni, che ho vissuto come alcuni dei momenti musicali, e spirituali, tra i più alti mai sperimentati nella mia vita.

Lo sentii per la prima volta nel 1979, quando ero studente in Germania, dopo il diploma. 


Mi portò al suo concerto Alexander Lonquich, allora studente come me alla Folkwang Hochschule di Essen. Il concerto era a Wuppertal e quando arrivammo ci accorgemmo, con rammarico, che i biglietti erano esauriti. In realtà fu una vera fortuna, perché potemmo accedere ai posti riservati al coro. 


Fu un’esperienza straordinaria, perché la musica veniva veicolata, oltre che dal suo preciso gesto, anche attraverso la sua mimica facciale, particolarmente espressiva, che seguiva o anticipava il senso del divenire musicale. Ebbi la netta sensazione che la mia vita stesse cambiando, ma dovetti aspettare qualche tempo, ben sei anni, prima di cogliere il giusto momento per seguire i suoi corsi.


Penso che i suoi corsi di Fenomenologia della Musica, presso l’Università di Mainz, siano stati luogo di riflessione intorno al senso e al modo di fare musica fra i più importanti a livello mondiale.La sala delle lezioni era frequentata ogni giorno, per 15 giorni, due volte l’anno, da non meno di 80 persone, studenti di musica, professori d’orchestra, allievi di direzione e concertisti da tutto il mondo.

Ogni mattina, lui, in anticipo su tutti noi, seduto sulla sua sedia, perché già malato di gotta, guardava il suo orologio e allo scoccare delle 10, invitava i partecipanti a porre delle domande. Gli argomenti riguardavano i rapporti tra il suono e la coscienza umana, cioè come i suoni agiscono in noi, lo studio delle condizioni attraverso le quali la musica può manifestarsi.I primi giorni fui, letteralmente, destabilizzato, perché Celibidache metteva in crisi, e con una capacità di pensiero e di sensibilità superiori, ogni sistema di riferimento “tradizionale” a cui ogni studente medio si affida, a cominciare dall’idea di interpretazione, o di tecnica, che spesso nasconde solo pigrizia e ignoranza.


Passato quel primo, sofferto momento capii che finalmente, e faticosamente, si poteva riannodare, in maniera consapevole, quel filo rosso che mi riallacciava direttamente ai miei primi, solitari, approcci col pianoforte di mia nonna, al momento della scoperta dei suoni e di quelle dimensioni dell’essere che solo la musica mi faceva conoscere.I corsi di Mainz prevedevano la possibilità, per chi lo desiderasse, di suonare davanti al grande direttore rumeno.


Solisti, gruppi da camera, perfino piccole orchestre, per lasciar spazio ai direttori, si avvicendavano per tutta la durata del corso, ogni pomeriggio.Era una palestra, per permettere a tutti di approfondire ulteriormente ogni aspetto della materia studiata.

Dopo pochi giorni dal mio arrivo, nel dicembre del 1985, ancora digiuno delle tematiche fenomenologiche, decisi di suonare il primo movimento della Sonata in do min. di Mozart.


La suonai con un impeto giovanile e con una drammatizzazione e accentuazione dei contrasti (tipica di chi aveva studiato con Zadra) senza minimamente tener conto delle scarse risorse del pianoforte in dotazione, né dell’acustica infelice, deciso a mostrare la mia musicalità e il mio temperamento focoso.

Il risultato fu di quelli da abbattere chiunque, perché mi disse, con un tono della voce provocatorio e tagliente: “tu suoni Mozart come se scrivessi una lettera d’amore e, al suo interno, l’avessi riempita di bombe”.

In pratica mi diceva che non avevo capito niente, che la mia era una dimostrazione di come non si dovesse suonare, perlomeno Mozart.


Non avevo rispettato nessun criterio fenomenologico, a cominciare dall’imporre, arbitrariamente, il tempo e le sonorità.

Avrei potuto, a quel punto, fare come molti, che passavano, osservavano il tipo di lavoro, e se ne andavano il più presto possibile, convinti, non senza qualche ragione, che ciò che conta nell’avere successo nell’ambiente musicale sia ben altro, a cominciare dallo sfoggio di una tecnica scintillante, come della ricerca dell’effetto.


Ma non era ciò che mi interessava.

Abbassai il capo e cominciai a studiare, ad ascoltare, a riflettere su ciò, ed era tanto, che non capivo.

Del resto, Celibidache aveva già innescato in me un processo senza ritorno. In un’intervista, lui aveva affermato parlando della sua orchestra dei Filarmonici di Monaco: “io accendo, rendo incandescente, il desiderio di correlare, che è in ognuno di loro”.

Ecco, anche in me aveva sollecitato quel bisogno, da sempre presente, di trovare nessi e dare senso a tutto ciò che facevo.


Frequentai tutti i suoi corsi e seminari in Germania, Italia e in Francia, oltre le numerose prove dei concerti, impagabile testimonianza del suo modo di lavorare.

A differenza di tutto il percorso precedente, contraddistinto da uno stretto rapporto personale con i miei insegnanti, non sentivo la necessità di avvicinarmi più di tanto a Celibidache, perché lo sentivo pericoloso.


Aveva un carisma e fascino straordinario, i suoi sorrisi facevano sciogliere ogni naturale difesa psicologica, ma quando meno te lo aspettavi poteva annientarti, con giudizi sferzanti.I suoi allievi più vicini erano oggetto dei suoi sbalzi umorali e sentivano costantemente la pressione della responsabilità del loro ruolo di fronte a tutti.

Quante volte ho assistito a giudizi estremamente lusinghieri del Maestro, seguiti, magari il giorno successivo, da condanne severe del loro operato.   Sergiu Celibidache su wikipedia...

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La svolta - La svolta

Seguii i corsi di Celibidache per quattro anni e durante l'ultimo incontro ebbi finalmente un importante riscontro del lavoro svolto. Uno dei tanti esercizi, che ci invitava a fare, ...

Seguii i corsi di Celibidache per quattro anni e durante l'ultimo incontro ebbi finalmente un importante riscontro del lavoro svolto. Uno dei tanti esercizi, che ci invitava a fare, consisteva nello scrivere alla lavagna una serie dodecafonica, scritta avendo cura di distribuire, con attenzione, le opposte fasi di espansione e contrazione della tensione musicale, in modo tale da rendere possibile un’integrazione finale.


Successivamente, chi lo desiderava poteva sedersi al pianoforte (sempre quel “maledetto” pianoforte, inaffidabile, della mia prima performance) e, suonando a prima vista, rendere manifeste tutte le relazioni esistenti in quella melodia.


Sebbene, a tutta prima, questo atto possa sembrare molto semplice, in realtà era, per tutti, una prova insidiosa, perché regolarmente ci scappava qualche accento di troppo, una variazione ingiustificata della velocità, o un’interpretazione errata delle suddivisioni interne alla serie, evidenziando, inesorabilmente, le nostre rigidità sia fisiche, che mentali.


In ogni caso, anch’io volli cimentarmi in quella prova, senza particolari aspettative se non quella del piacere di mettermi alla prova, accompagnato da una naturale emozione.Suonai quella serie senza tentennamenti, con la percezione, miracolosa, che ad ogni suono corrispondesse una funzione, che chiarisse il suo significato, che arricchisse di nuovi significati tutti i suoni precedenti e che aprisse nuovi spazi di senso ai suoni successivi. Tutto ciò fino all’ultima nota, la quale, come un ultimo suggello, si riallacciava al primo suono, esaltando, nella mia coscienza, il significato complessivo dell’intera serie.Fu un’esperienza meravigliosa, riconosciuta prontamente da Celibidache, ma anche colta, subito dopo, con un certo sospetto. 


Era solo il risultato di un caso, o si trattava della felice conquista di un allievo maturo? 


Mi chiese di ripetere l’esecuzione…


Benché l’attenzione di tutti, e le aspettative su di me si fossero accresciute, suonai con la stessa disposizione d’animo, ottenendo lo stesso senso unitario della serie di suoni, nonostante leggere variazioni nelle dinamiche e, corrispondentemente, nell’agogica. 


Celibidache era particolarmente felice, perché aveva potuto dimostrare, nell’immediatezza, come l’unicità e aderenza al vero di un’esecuzione non dipendesse da un suonare secondo standard prestabiliti, dal “rifare esattamente le stesse cose”, ma dalla capacità di ascolto di chi esegue, dalla sua libertà interiore, in quel preciso momento, da una particolare disposizione all’affidarsi al dato oggettivo, che è accompagnata da una purezza della coscienza e da una corrispondente reazione spontanea della volontà, a sua volta purificata, libera da cliché e condizionamenti.

È chiaro che questi sono momenti “miracolosi”, rari, non dipendenti dai nostri desideri, anche se noi possiamo tentare di creare le condizioni per renderli possibili. 


Tuttavia, in quel preciso momento, avevo potuto essere presente all’intero processo e questo mi è bastato, avevo capito in quale direzione potevo lavorare. Iniziava così una nuova vita musicale, più consapevole e responsabile, verso una nuova integrazione di tutte le mie esperienze passate e presenti.

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Conclusioni - Conclusioni

Negli anni successivi all’esperienza con Celibidache, cioè dal 1989, mi sono mantenuto in contatto con alcuni suoi assistenti e allievi, per approfondire ancora alcune tematiche ...

Negli anni successivi all’esperienza con Celibidache, cioè dal 1989, mi sono mantenuto in contatto con alcuni suoi assistenti e allievi, per approfondire ancora alcune tematiche fenomenologiche, e insieme alla mia attività concertistica, che in quegli anni si sviluppò ulteriormente, ho intrapreso, con molta passione, lo studio della Composizione, con un valido compositore, nonché amico, Alessandro Cusatelli.

Ho anche ripreso a interessarmi ad altre forme artistiche abbandonate durante l’adolescenza, come la pittura e la scultura, espresse attraverso le indicazioni antroposofiche, e poi all’euritmia, oltre a forme di conoscenza e di utilizzo del corpo come la tecnica Feldenkrais. 


Dopo essermi sposato ed attraversando anche l’esperienza della paternità nelle varie sue fasi, oggi, sento di poter utilizzare questi vissuti, musicali e non, in maniera creativa, sia nella preparazione dei concerti, che nell’attività didattica.

Ciò è stato reso possibile, soprattutto, dalla lunghissima frequentazione, insieme a mia moglie, di gruppi di approfondimento spirituale, culturale e psicologico, condotti da Marco Guzzi, poeta, saggista e guida spirituale di rara umanità, che ci ha accompagnato nella scoperta delle nostre realtà interiori più nascoste, delle pieghe della nostra anima, e ci ha indicato la via della meditazione.


Poco tempo fa, una mia allieva mi disse, durante una lezione: “ma Maestro, come fa a capire, così nel dettaglio, quello che mi passa per la testa mentre suono, i miei pensieri, tutte le mie ansie, le paure, le aspettative e le aspirazioni”. Allora non mi fu difficile rispondere che, ciò che provava, anche se ovviamente in forma personale e particolare, era parte del mio vissuto, erano emozioni, sentimenti che conoscevo bene, che avevo sperimentato nel mio corpo e nella mia anima, e non potevo che riconoscerli nei suoi gesti, nelle espressioni del suo volto, nella postura, nella maggiore o minore rigidità del corpo. 


Tutto ciò è stato, sempre più, oggetto delle mie riflessioni, in tutte le forme in cui la mia creatività ha potuto esplicarsi.

A questo punto mi viene da pensare che tutta la mia vita è stata il prodotto di una continua mediazione fra istanze ed esperienze contraddittorie, a cominciare dalla mediazione fra l’appartenenza a due mondi opposti dei miei genitori, la loro diversa estrazione sociale, culturale ed etnica.


Non che mia madre, o mio padre, in quanto singoli individui, fossero più colti l’uno dell’altro, ma appartenevano a due culture diametralmente opposte, l’una all’alta borghesia tedesca/slava e l’altra alla cultura contadina piemontese, anche se da questa, mio padre si era decisamente affrancato con i suoi studi e con il continuo viaggiare per il mondo.

Questi due mondi li ritrovavo in me, a volte conflittuali, altre complementari e arricchenti.


Essendo molto legato ad entrambi, anche se in forme diverse, questa situazione dicotomica mi ha portato a una naturale tendenza alla riflessività. Bachelard scriveva che l’essenza della riflessione sta nella percezione della mancanza di comprensione di qualcosa (e - io aggiungo - anche nella volontà di rimediare a questa mancanza). Ecco, forse anche nella continua fatica di integrare realtà diverse, complementari, ma anche nella ferma volontà di indagare le mie difficoltà e di trovare soluzioni, si può spiegare la naturale tendenza a sintonizzarmi con le difficoltà degli allievi e il desiderio empatico di aiutarli.


Quello sforzo, che ho vissuto inizialmente come una personale debolezza, si è rivelato una peculiarità anche sul piano della espressione musicale, permettendomi di avvicinare realtà poco conosciute, più ambigue, più sottili e sfumate, perfezionando costantemente i mezzi, la tecnica più adeguata ad esprimerle.

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